Il Tar del Lazio rinvia il testo alla Corte: a rischio la costituzionalità dei tetti degli spot imposti a Sky
Nel marzo del 2010 l’ex ministro Paolo Romani del quarto governo Berlusconi confezionò una legge (DL 44/2010) che impose un tetto per gli spot pubblicitari alle pay-tv. L’obiettivo di Romani, manco a dirlo in palese conflitto di interessi, era e rimane quello di limitare il business di Sky Italia, il vero e unico concorrente di Mediaset all’epoca come nei giorni odierni.
Dopo 4 anni il provvedimento sarà giudicato dalla Corte Costituzionale su invito dei giudici amministrativi del Tar del Lazio (ordinanza del 17 febbraio 2014). La Consulta dovrà stabilre se la norma abbia discriminato le tv a pagamento, e favorito quelle in chiaro come Mediaset. Il decreto di Romani, ex ministro ricordato anche per la geniale creazione del Beauty Contest delle frequenze tv, prevede che una pay-tv possa trasmettere spot per un massimo del 16% del tempo in un’ora (nel 2010), del 14% nel 2011, e del 12% a partire dal 2012.
Il percorso tra i tribunali italiani ed europei della norma Romani inizia nel marzo del 2011, quando l’Agcom contesta a Sky una violazione del DL 44/2010, reo di aver superato i limiti trasmettendo il 16,44% del tempo in spot pubblicitari. L’Authority infligge alla tv di Rupert Murdoch un multa di 10 mila euro. Sentenza subito impugnata da Sky che ricorre davanti al Tar del Lazio. Il Tar prima ricorre al giudizio della Corte di Giustizia Europea, che nel 2013 sentenzia che è ammesso per uno Stato imporre alle reti tv a pagamento dei limiti di spot rispetto alle televisioni in chiaro, a patto che i tetti siano conformi alle regole generali dell’UE, e che non ledano la parità di trattamento. E ripassa la palla al Tar.
Il tribunale amministrativo riprende la questione e nella sua ordinanza del 17 febbraio 2014 sentenzia che è avvenuta “una differenziazione ingiustificata tra tv pay e quelle in chiaro“. Il limite agli spot ha inciso e incide tutt’ora sulla “libertà di iniziativa economica delle pay-tv“. Infine il Tar muove un’obiezione procedurale della norma, che pare slegata dalla delega legislativa orgininaria e “risulta adottata in violazione dei principi e criteri dirittivi della stessa”. Detto ciò il Tar del Lazio scrive che la sua è una pronuncia in via interlocutoria, e rimanda tutto alla Corte Costituzionale che dovrà stabilire se il decreto di Romani violi gli articoli 76, 3 e 41 della Costituzione Italiana.
Fonte: La Repubblica