«C’è una macchina che spia tutto. Perché lo so? Beh, l’ho costruita io». Finch, genio informatico e protagonista della serie tv di culto “Person of interest”, racconta così il trucco che ha reso il mondo trasparente. Intrufolandosi negli smartphone, braccando gli algoritmi di ricerca su Google, sbirciando dalle telecamere che monitorano il traffico, ha cancellato ogni confine fra pubblico e privato.
La macchina, ultima incarnazione del leviatano informatico, nella realtà degli Stati Uniti si chiama “PRISM” (l’ormai celebre progetto di sorveglianza globale ad opera della NSA) e minaccia il fragile equilibrio fra invasione illecita e ragion di Stato. Un’ossessione di controllo tutta americana verrebbe da dire, che però impone una domanda: e se in Italia fosse uguale? La prima risposta sta fra le righe di un documento che ha meno di 5 mesi, approvato fra l’indifferenza generale nel crepuscolo del governoMonti, appena prima della tempesta elettorale. Si tratta della direttiva “recante indirizzi per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica nazionale”, datata 24 gennaio 2013 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 19 marzo.
Se l’obiettivo è tanto chiaro quanto ovvio, la neutralizzazione dei pericoli sulla rete e la prevenzione degli attacchi cibernetici, a stupire sono le nuove misure che vengono previste. L’articolo11, inparticolare, stabilisce l’obbligo per “gli operatori privati che forniscono reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico” di garantire agli organismi d’informazione per la sicurezza l’accesso alle proprie banche dati “ai fini della sicurezza cibernetica”. Passando dall’astratto al concreto: da un lato ci sono operatori privati come Google, Facebook, Apple e le compagnie telefoniche nazionali; dall’altro le agenzie di sicurezza: 9 soggetti diversi sul suolo italiano fra cui l’Aisi, i servizi segreti italiani. In mezzo una posta delicata: dati e corrispondenza riservata di tanti cittadini.
«C’è un problema chiaro e inedito» attacca l’avvocato cassazionista Fluvio Sarzana, esperto di tematiche legate al diritto della rete e primo a lanciare l’allarme «perché la direttiva garantisce alle autorità di pubblica sicurezza l’accesso al materiale riservato senza l’autorizzazione di un magistrato: il rischio di un PRISM italiano oggi è concreto». A lasciare perplessi, oltre al fatto che un tema così delicato sia stato normato per decreto, è la vaghezza del provvedimento. «Per le intercettazioni telefoniche, ad esempio, devono sussistere dei limiti precisi» chiarisce Sarzana «dai tempi massimi ai soggetti coinvolti. In questo caso, invece, dopo aver stipulato una convenzione con l’operatore privato, sembra profilarsi uno spionaggio di massa».
Eppure ci sono altre sfumature da considerare. Il testo, innanzitutto, parla esplicitamente di “sicurezza cibernetica”. Questa distinzione, che nel mondo che viaggia in codice binario può sembrare artificiosa, induce diversi giuristi alla prudenza. «È una questione delicata di bilanciamento dei diritti, in cui il singolo cede parte della privatezza di fronte a questioni d’interesse nazionale » chiarisce l’avvocato Daniele Minotti, che sottolinea come la legge apra nuove possibilità per le autorità di sicurezza in ambiti più circoscritti, che comunque non intaccherebbero i principi fondamentali sanciti dalla stessa Costituzione, fra cui la segretezza di ogni forma di comunicazione.
«Tuttavia bisogna tenere la guardia alta» chiosa Minotti «perché il provvedimento nasconde zone d’ombra e genericità eccessive. Anche se prima diparlare di Prism italiano c’è tanta strada da fare». Così, mentre una combattiva Angela Merkel annuncia che si occuperà personalmente della questione la prossima settimana quando accoglierà Obama a Berlino, con la preoccupazione che lo spionaggio abbia colpito anche cittadini tedeschi, l’Italia ha optato una linea più prudente. Il senatore Casson del Partito Democratico, neoeletto alla vicepresidenza del Copasir, mantiene il massimo riserbo sulla questione. Cautela che contraddistingue anche i vertici della Polizia postale, negli ultimi mesi al centro di polemiche per un atteggiamento giudicato eccessivamente censorio, che ribadiscono come la loro azione si svolga nei rispetto del ruolo della magistratura e nel campo d’azione di ciò che è pubblico e visibile a tutti.
Neppure il fatto che la talpa statunitense, l’ingegnere Edward Snowden, lavori per un’azienda privata cui è stata appaltata una faccenda di sicurezza nazionale sembra scuotere nessuno: è la norma anche nel nostro Paese, pur con accordi di riservatezza vincolanti e severissimi. Uno scenario in cui riserbo, segretezza, e trasparenza s’intrecciano e scontrano, lasciando sul campo dubbi e domande. E alimentano il mito e la paura del “Panopticon”, l’architettura utopica e spietata immaginata dal filosofo Jeremy Bentham, dove l’unico e potente guardiano tiene sott’occhio ogni individuo, rubandogli ogni segreto, svelando la verità. Un’onniscenza affascinante e inquietante, che illumina ogni angolo buio e cancella i pericoli. Ma che, inevitabilmente, calpesta la libertà.