Da un articolo di Alessio Jacona su L’Espresso n.7 16 febbraio 2012:
La digitalizzazione dello Stato promessa dal governo Monti passa dal software libero?
In principio era la Provincia di Bolzano. Nel 2009, il caso delle sue 83 scuole di lingua italiana migrate all’Open Source fece scalpore e fu persino oggetto delle “Good News” della trasmissione “Report” su RaiTre. E a ragione, visto che i costi si riducevano di un ordine di grandezza, passando dai 269 mila euro l’anno spesi in licenze per sistemi operativi proprietari a 27 mila euro investiti in manutenzione di software libero, che è gratuito o quasi.
Sono passati quasi tre anni e, con la crisi in corso e i tagli nelle pubbliche amministrazioni, sarebbe lecito aspettarsi che una simile esperienza sia stata replicata un po’ ovunque nel Paese, alleggerendo non poco le spese fatte con i soldi dei contribuenti. Non è così: «A fare scuola a livello internazionale ci sono le esperienze del governo brasiliano guidato da Lula, che ha operato una transizione quasi totale della macchina pubblica al software libero, e poi ancora quelle del Venezuela o della Francia », spiega Luca Nicotra, segretario nazionale di Agorà Digitale. Qui da noi, invece, le esperienze virtuose balzate agli onori della cronaca ci sono ma non sono ancora abbastanza: si va dalle leggi che agevolano l’adozione del software libero in regioni come Toscana, Veneto, Piemonte, Umbria e Lazio, alle iniziative di alcuni Comuni come Roma e Firenze, fino ai piani di ammodernamento di un’istituzione come l’Istat. E poco altro.
Viene da chiedersi se ci sia qualcuno che rema contro: «In primo luogo l’avvento dell’open software nella Pa si scontra con un problema culturale», dice ancora Nicotra, «perché i decisori mancano delle competenze necessarie e spesso ignorano sia la stessa esistenza di valide alternative al software proprietario, sia il fatto che l’adozione del software libero aprirebbe un nuovo e fiorente mercato di piccole e medie imprese del software». Decisori distratti e poco consapevoli, dunque, che in alcuni casi hanno anche tutto l’interesse a restare tali: «Il secondo vero problema», prosegue infatti il segretario di Agorà Digitale, «è determinato dai rapporti molto stretti che spesso legano gli enti pubblici e i fornitori, con questi ultimi che di fatto “ispirano” i bandi», e si assicurano la conservazione dello status quo.
Qualcosa però si sta muovendo: a livello locale, c’è il caso – peraltro sempre a Bolzano – dell’azione intrapresa dall’Associazione Software Libero, che si è rivolta al Tar per avere ragione di un bando giudicato sospetto. E poi, molto più in alto, ci sono i recenti provvedimenti del governo Monti: in particolare il decreto approvato con un emendamento portato avanti dal radicale Marco Beltrandi (e proposto proprio da Agorà Digitale), che modifica il comma D dell’articolo 68 del Codice dell’Amministrazione Digitale e, di fatto, obbliga ora tutte le pubbliche amministrazioni almeno alla «valutazione» del software libero nei loro bandi di gara. Un importante passo avanti, sì, ma soprattutto «simbolico», come lo definiscono gli stessi promotori, che ha il merito di aver riportato il tema dell’open source all’attenzione della politica mentre continua un’altra e più complessa battaglia: quella che i sostenitori del software libero conducono per rendere il ricorso al software proprietario nella pubblica amministrazione un’alternativa secondaria, cui ricorrere solo in caso di stretta (e certificata) necessità.
Vietato però farsi illusioni. Sia sulla rapida attuazione del decreto Monti, sia rispetto ai benefici che il software open source può introdurre nella Pa nel breve termine. Intanto perché «non esiste una soluzione valida sempre», come ammonisce l’avvocato Ernesto Belisario, esperto di diritto legato alle nuove tecnologie: «Il software libero», dice, «offre vantaggi di tipo etico-filosofico perché è aperto, perché sai cosa c’è dentro, perché nasce da uno sviluppo partecipato e via discorrendo. Ma non si deve fare l’errore di pensare che “software libero” significhi sempre e da subito zero costi per la Pa. La verità è che la sua adozione può portare benefici economici nel medio e lungo periodo, ma nel breve richiede investimenti». Vale a dire: non si pagano le licenze, ma ci sono i costi di migrazione, di sviluppo, di manutenzione, di formazione.
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