Il governo Monti e il ministro allo sviluppo Passera hanno promesso ai cittadini e ai partiti politici (Idv, Lega e Pd) che il concorso di bellezza delle frequenze tv, che dovrebbe regalare 6 mux agli operatori nazionali, sarà stralciato o almeno rivisto. Ma anche se l’ex ad di Intesa S. Paolo ha dichiarato che la nuova gara per i canali televisivi sarà definita al più presto, pare invece che la posizioni dell’esecutivo “tecnico” stiano virando improvvisamente verso il solito beauty contest non competitivo, creato dagli uomini di Paolo Romani, con l’aggiunta di alcune modifiche. Per questo motivo la Fondazione Ugo Bordoni, l’advisor che appoggia il Ministero e la commissione dei tre componenti incaricati di stilare la graduatoria delle 7 tv nazionali, ha richiesto più tempo per definire i nuovi dettagli del concorso.
C’è chi sostiene che un’eventuale asta onerosa potrebbe portare nelle casse dello Stato più di 2 miliardi di euro, se si prende come punto di riferimento l’asta LTE per la banda larga mobile conclusa qualche mese fa. C’è invece chi sostiene che una gara pubblica con le frequenze in vendita andrebbe irrimediabilmente deserta. Perchè in tutti gli altri paesi europei i multiplex digitali sono stati assegnati gratuitamente; perchè le tv nazionali hanno già tantissimi canali che non rendono abbastanza per nuovi investimenti; perchè il mercato televisivo è bloccato dal duopolio della raccolta pubblicitaria di Rai e Mediaset.
Secondo Alessandro Penati, professore ordinario di finanza aziendale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, economista per La Repubblica, comunque una possibile asta delle frequenze tv non sarebbe sufficiente per aprire questo mercato tv. Lo Stato e i governi di centro-destra e centro-sinistra infatti hanno assegnato troppe poche frequenze alla telefonia (non prendendo in considenrazione il traffico dati di iPad e iPhone), hanno puntato sulla tv mobile su cellulare, rivelatasi un flop, e infine hanno sviluppato la tv digitale terrestre favorendo solo un incumbent, cioè Mediaset.
Ci vorrebbe, a detta del prof. Penati, una grande riforma. Non solo con un’asta competitiva aperta a chiunque che, per valorizzare le risorse, metterebbe in lizza dei canali rivendibili o affittabili a terzi. Ma per promuovere la concorrenza (quasi inesistente attualmente) si dovrebbe creare un carrier puro, scorporando l’asset delle torri di broadcasting di Rai Way dalla tv pubblica, e ricollocando sul mercato la stessa Rai. Una separazione tra editore e operatore di rete nel mercato che potrebbe cancellare la dipendenza dai network e aprire il mercato a nuovi editori, ma che, a mio parere, dovrebbe però valere sia per Mediaset (che invece ha appena costituito la più grande società di rete di trasmissioni tv con DMT), sia per Telecom Italia Media.
Penati sostiene inoltre che per aprire alla concorrenza si dovrebbe privatizzare interamente la Rai, abolendo logicamente il canone. In questo modo andrebbe definitivamente cancellato quel carrozzone tv guidato dalla politica e controllato dall’esterno da Mediaset, ma, secondo il mio punto di vista, verrebbe anche meno una grandissima risorsa del paese Italia. Si andrebbe ad abbandonare quel servizio pubblico (la Radio Televisione Italiana) che è stato in grado nella sua storia di unire in sola comunità i cittadini della penisola. Meglio invece stabilire finalmente i limiti Antitrust per stroncare le posizioni dominanti sull’uso delle frequenze e nel mercato della pubblicità.
Infine una brillante idea: si dovrebbero tassare i detentori delle vecchie frequenze tv mettendo all’asta ogni 3 anni la numerazione automatica (LCN) dei canali digitali, una risorsa di sicuro valore per la posizione sul telecomando, che smonterebbe l’ennesima posizione dominante di Rai e Mediaset. In ultimo Penati propone una rivoluzione nel sistema di rilevamento degli ascolti tv, oggi controllato dai soliti incumbent: il fondo strategico della Cdp dovrebbe acquistare Auditel e l’ADS in modo da creare una società indipendente che certifichi il valore pubblicitario dei contatti per tutto il settore dei media, vietando logicamente alle stesse aziende media di diventarne soci.
Fonte : La Repubblica