Il dado è tratto. Anzi l’asta per le frequenze tv. In seguito all’annullamento del famigerato Beauty Contest e alla disposizione dell’emendamento che porterà a una nuova gara, il governo ha deciso di mettere in vendita i canali. E mentre scoppiano le polemiche e le conseguenti schermaglie tra Pd e Pdl, la patata bollente passa nelle mani dell’Agcom di Corrado Calabrò che avrà il compito di scrivere il bando e il disciplinare dell’asta onerosa entro 4 soli mesi. Inoltre la scadenza dell’attuale mandato Agcom previsto a metà maggio procrastinerà probabilmente la definizione delle suddette regole al Consiglio successivo.
L’esecutivo tecnico ha emanato il provvedimento per valorizzare una risorsa pubblica, lo spettro, in un momento in cui tutto il Paese è costretto (purtroppo) a compiere sacrifici; per promuovere la modernizzazione delle telecomunicazioni e la diffusione della Banda Larga Mobile, in linea con l’Agenda Digitale europea; ma soprattutto per aumentare il pluralismo e la trasparenza del settore televisivo.
Ma se il governo Monti è veramente intenzionato ad aprire il mercato tv italiano, oppresso da troppi anni dal duopolio Rai-Mediaset, e ha la volontà di far cancellare la procedura di infrazione Ue aperta nel 2006, avrà l’obbligo di indire un’asta (o due gare) attuando “la separazione verticale tra i fornitori di programmi e gli operatori di rete, che dovranno consentire l’accesso ai fornitori di programmi a condizioni eque e non discriminatorie” (cita il testo del governo).
Il guaio è che, anche in questo campo, l’Italia è «diversa». Mentre in altri Paesi europei ci sono aziende che si occupano solo di gestire le reti (l’Inghilterra ha Arqiva, la Francia Tdf, la Spagna Abertis, per fare solo tre esempi), in Italia le televisioni posseggono sia le infrastrutture che i programmi: Fininvest controlla l’azienda maggiore (Elettronica Industriale, che ha appena inglobato DMT) e Rai possiede RaiWay. Per non dire di Telecom Italia Media (con TIMB) e di altri. Sono tutti «integrati verticalmente».
L’anomalia del mercato tv del Bel Paese potrebbe costringere l’Agcom a ideare una gara «permissiva» con tutti gli operatori, negando però quella separazione verticale che potrebbe essere un primo passo per l’apertura alla concorrenza. Una seconda soluzione (descritta da Edoardo Segantini su Il Corriere della Sera) sarebbe al contrario limitare la gara agli operatori di rete «puri», cioè agli stranieri, ma è una strada difficile persino da immaginare. Perché presupporrebbe che sia Fininvest che Rai venissero forzati alla separazione proprietaria, cioè a vendere in tutto o in parte la società che gestisce le infrastrutture. Una strada intermedia e ragionevole potrebbe essere quella di fare come nelle telecomunicazioni, prima in Inghilterra (con Open Reach) e poi in Italia (con Open Access), dove si è creata una separazione soltanto societaria (non di proprietà), per forzare l’ex monopolista ad affittare la propria rete a tutti i concorrenti a condizioni uguali, senza privilegiare, con trucchi o trucchetti, la propria «casa madre».
La nuova Autorità per le comunicazioni in ogni modo si ritroverà in mano una pratica davvero complicata, ma avrà anche la chance di dimostrare che l’aggettivo «nuova» non è usurpato. Purtroppo nel Paese dei Cachi il Consiglio Agcom (Authority teoricamente indipendente) viene nominato dai partiti politici (8 consiglieri dalla Camera e 8 dal Senato) e dalla Presidenza del Consiglio che elegge il presidente.
Fonte: Il Corriere della Sera
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